Romanistan - Diario #3
Yerevan, h 22.37. Arriviamo in Armenia dopo aver attraversato la Turchia, tutta, da ovest ad est; poi la Georgia, compiendo uno strano anello per passare una notte tra le popolazione Svan, e arrivare qua davanti all’Ararat. Domani ci aspetta la frontiera iraniana.
Una settimana spesa in un attraversamento paesaggistico che ci ha sbalzati dalle prime grandi distese polverose e depresse dell’Asia minore, per poi rituffarci nelle verdi foreste georigiane e le grandi montagne caucasiche ancora coperte di neve. In Turchia teniamo un centinaio di kilometri di distanza dalla frontiera siriana, in un retrovia dove la presenza dei militari, i posti di blocco, i blindati e le fortezze, si moltiplicano, ma senza segni di pattugliamenti aerei o movimenti di truppe.
Gli uomini in divisa ci guardano più con curiosità che con sospetto. I curdi li incrociamo in una vasta piana riarsa dal sole, prima in tende isolate, poi in villaggi malridotti. La terra concessa loro sembra la più povera e dura. Sono però ospitali, ci invitano a pranzo dalla pedana di un trattore, ma dobbiamo proseguire e decliniamo l’invito.
Il passaggio dalla Turchia alla Georgia è un salto aereoportuale. La dogana ha quell’aspetto, con tanto di Duty-Free nella terra di mezzo. Usciamo sotto la stessa luce accecante, ma le faccie sono diverse. Entriamo a Batumi, e lo stile architettonico è sovietico in parte -comunista e sfasciato- kazaco per l’altra -nuovo, luccicante e cafone.
La pianura che incontriamo nell’entroterra è “spiritualmente” piatta: scompaiono i minareti ma non ricompaiono le torri campanarie. Stalin ha costruito solo ciminiere, ora dismesse. Ci fermiamo per caso, davanti a un tempietto campestre. Una stella non più rossa è scolpita sul frontone, mentre un furgone si schianta contro un palo, sollevando molta polvere ma senza provocare danno ai passeggeri che si limitanto a controllare se funziona ancora lo smartphone.
Saliamo sul Caucaso, entrando nella terra delle torri. Qualcuno ha piantato delle croci in cima alle montagne e il finto/nuovo di piccole chiese sambra rimarcare una opzione identitaria la cui adesione non ci è dato di accertare. Di qua, il popolo della ruota non è probabilmente mai passato. Ma torri e ruote entrano comunque in risonanza, come una diploflonia dello stato d’animo di genti sempre all’erta, schive, minoritarizzate, deso-stanziali.
L’arrivo in Armenia -stessa procudera doganale- ci apre ad un altro respiro: altra diaspora, altro sterminio. Scopriamo da un restauratore di affreschi, la figura di Mesrop Mashtots, che in una visione notturna compose l’alfabeto armeno per donare a quel popolo il LIBRO, e altrettanto fece per i georgiani, declinandone il font in forma semplice, come un maestro del Bauhaus.
Romanistan di Luca Vitone è un progetto promosso dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, vincitore della IV edizione del bando Italian Council (2018), concorso ideato dalla Direzione generale arte e architettura contemporanee e periferie urbane (Dgaap) del Ministero per i beni e le attività culturali, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo. In collaborazione con «Il manifesto», sul nostro sito, uscirà ogni settimana un breve diario di viaggio che segnerà le tappe del percorso dell’artista con il suo gruppo. Le tappe saranno narrate su www.ilmanifesto.it ogni venerdì a partire dal 31 maggio, per finire il racconto di parole e immagini il 5 luglio ( sei puntate). Sul sito di Luca Vitone sarà possibile vedere le coordinate geografiche in cui si troverà ogni tot minuti.
www.lucavitone.eu