Romanistan - Diario #5
Dall'Iran al Pakistan, con una temperatura che varia tra i 40° - di notte - e i 45° - di giorno - e un paesaggio desolato e secco. Fino a raggiungere la valle del grande fiume. Un territorio dove i Sindhi rimangono gli ultimi pastori: di dromedari, o di bufali e di capre. Una leggenda dice che i Sinti, sottogruppo dei Rom, discendano da queste genti
Lahore, h 22.17. Lahore è già India. Ci siamo – non ancora – arrivati dopo un tormentato attraversamento pakistano.
Abbandoniamo l’Iran passando per Ban, la grande fortezza di terra e paglia. Alla frontiera con il Pakistan, un centinajo di km. più a est, regnano la vaghezza, una temperatura che varia tra i 40° – di notte – e i 45° – di giorno – e un paesaggio desolato e secco. Circolano voci contradditorie: la dogana pakistana e/o quella iraniana son già chiuse, non si sa. Nell’indecisione proseguiamo, scavalcando file di camion. Blocco dopo blocco il passaggio è quasi impercettibile. Si nota a un certo punto una bandiera verde e bianca che sventola sopra le nostre teste. Compare qui un giovane soldato con la kefia sulla testa. Il distintivo non è più quello iraniano, il volto è quello di un panjabo.
Taftan è il nome dell’insediamento di frontiera dove entriamo: un’accozzaglia multi-etnica di afgani spiritati, pashtun biondicci ed euforici, beluci corvini e barbuti, qualche panjabo e nessuna donna. Chi avrebbe mai immaginato che esistesse ancora un’Asia di questo genere? Ci accompagnano in un cortile recintato con mucchietti di pick-up sequestrati al contrabbando. Non c’è altro posto in cui dormire, è tardi e ci consentono di accamparci qua fuori, piuttosto che in quelle stanze tanto simili a celle. Una ventina di giovani uomini sono seduti sotto a un portico. Facce stanche e rassegnate. Un cellulare arriva, due militari li fanno montar sù e li portan via. Siamo in un centro di prima detenzione (quei ragazzi hanno tentato probabilmente la loro avventura verso ovest). Non ci sono segni di violenza. Li hanno presi, punto. La ‘frontiera europea’ si è spostata molto a est.
Tengono sotto scorta anche noi, per tutto il viaggio. Seguiamo la rotta bassa del Pakistan verso l’India, la rotta più brutta, sapendo che sopra di noi, a nord, avremmo potuto godere di uno tra i complessi paesaggistici più belli del pianeta. Le scorte si susseguono, ci passano di consegna ogni 50 km circa, in un bizzarro balletto di autoblindo e pick-up. A Quetta arriviamo domenica notte in trionfo, con moto, sirene e armi spiegate contro un traffico indifferente. È uno strano film. Ognuno interpreta la sua parte; in questa realtà che è diventata finzione ci è pure consentito di fare le foto; si finirà coi selfie tutti assieme. In Pakistan si manifesta il parossismo di una macchina fictionaria a doppio regime: rappresentare per prevenire e prevenire per rappresentare. Il cinema e i media occidentali non hanno fatto altro, in questi anni, che intensificare le dosi di dramma (catastrofi, incidenti, terrore, umanicidio finale), alzando la posta di polizze assicurative e securitarie del nostro mondo, imponendole poi a quello degli altri.
A Quetta restiamo fermi un giorno per burocrazia, ripartendo martedì non senza fatica, per raggiungere finalmente la valle dell’Indo. La piana dell’Indo è enorme ma non immensa. Il letto di questo colosso fluviale si ritorce da milioni di anni su sé stesso stratificando argille e sassi in montagne rocciose per poi rimangiarsele in una erosione continua. È il ciclo delle metamorfosi. Su qesta argilla crescono alternate foreste di manghi e ciminiere. Il riso cresce abbondante fornendo cibo ai braccianti e combustibile alle fornaci. Ai margini dei villaggi e delle città costruite con questi mattoni, compaiono gli accampamenti dei Sindhi. In questo territorio industrioso e agricolo, i Sindhi rimangono gli ultimi pastori: di dromedari, o di bufali e di capre. Una leggenda dice che i Sinti, sottogruppo dei Rom, discendano da queste genti. Mimetizzati nell’ambiente che li circonda, cotruiscono abitazioni minime con paglia e pali di legno. Vivono sospesi come trampolieri tra le inondazioni. Straneri in patria, il primo vento forte se li porterà via.
Siamo un po’ stanchi. La nostra ultima scorta si dilegua lungo un’autostrada in costruzione. Compare Lahore, il cielo popolato dai corvi neri dell’India e da molti rapaci.
Romanistan di Luca Vitone è un progetto promosso dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, vincitore della IV edizione del bando Italian Council (2018), concorso ideato dalla Direzione generale arte e architettura contemporanee e periferie urbane (Dgaap) del Ministero per i beni e le attività culturali, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo. In collaborazione con «Il manifesto», sul nostro sito, uscirà ogni settimana un breve diario di viaggio che segnerà le tappe del percorso dell’artista con il suo gruppo. Le tappe saranno narrate su www.ilmanifesto.it ogni venerdì a partire dal 31 maggio, per finire il racconto di parole e immagini il 5 luglio ( sei puntate). Sul sito di Luca Vitone sarà possibile vedere le coordinate geografiche in cui si troverà ogni tot minuti.