23/07/2019

Romanistan - Diario #6

Autore: Daniele Caspar
Tratto da: Il Manifesto

New Delhi, h 09.30.
New Delhi è una bella e grande città. Ora è mattino e fa già un caldo che toglie il fiato. Abbiamo passato venerdì i famosi cancelli di Wahga. Due altissime aste si fronteggiano a un centinaio di metri di distanza, issando le banadiere di due nazioni. Ma queste penzolano bavose e indistinte, non c’è un filo di vento. Una grande tribuna, capace di ospitare un migliaio e più di spettatori, sovrasta il piazzale dove si svolge tutte le sere una famosa cerimonia, che vede due drappelli di soldati con livree diverse prendere a calci i rispettivi cancelli per serrare il passaggio fino al giorno sucessivo.
Ma ora è mattino e in fila ci siamo solo noi. Un soldato indiano fa scorrere di un po’ il cancello e iniziamo la trafila degli scribi che annotano su grandi registri i nostri dati, una, due, tre volte. Le procedure ci prendono due ore e, nel frattempo, da questo confine non passa nessun’altro.

L’autostrada per Chandigarh è moderna e semideserta. La pianura un monotono susseguirsi di campi coltivati e brutta architettura moderna. Passiamo su una soprelevata Amristar, da dove birllano le cupole dorate dei templi sikh. Chandigarh si annuncia invece con l’anticamera polverosa della nuova sopraelevata in costruzione, che attraversiamo dribblando i grandi pilastri di cemento e il flusso caotico di mezzi che zigzagano a destra e sinistra.
Chandigarh è un altro mito, costruzione utopica della città perfetta, disegnata da Le Corbusier e allestita in una manciata d’anni (i Sessanta). Ci aggiriamo per due giorni in questa nobile rovina. Difficile distinguere tra ciò che è rimasto e ciò che è stato rifatto, tradito o semplicemente distrutto. Con Luca parliamo di “tropicalizzazione”. Ma la sensazione è che qui, non abbiamo di fronte il rigoglioso riutilizzo di strutture in cemento razionali da parte di un ecologia endemica. Prevale il senso dell’abbandono, di qualcosa che non ha fatto presa. Molti lotti sono ancora vuoti, abitati da una bassa foresta e il reticolo iniziale non si è espanso in nessuna direzione, contenuto piuttosto dal tipico dist-urbanismo indiano.
Arriviamo al tramonto di una sera nel centro monumentale e amministrativo della città, il distretto 1. La vasta piazza che raccorda i tribunali al palazzo dell’Assemblea, è una lunga vasca di cemento che ricorda per proporzioni le architetture di Spree. Troviamo due figure solari impresse nel cemento: una ruota – simbolo che campeggia anche sulla bandiera dell’India – e una seconda ruota, molto schematica, quella che siamo soliti definire una svastica.
Nel frattempo le macchine vengono imbarcate da Athos ed Enrico in un porto vicino a Ghandi Dahn, un migliaio di km. più a sud.
A Nuova Delhi completiamo la ricerca con una serie di interviste e di visite mirate. Shayam Parande e Zameer Anwar fanno parte di un centro di inizative finanziato dal Ministero degli Esteri indiano, costituito da accademici e funzionari politici e amministrativi di rango intermedio.
Dalle interviste emerge una impostazione univoca, frutto di un disegno programmatico abbastanza chiaro. Si tratta di rendere nota alla popolazione indiana l’esistenza di questa nazione fuori dallo stato: i Rom appunto, che indiani sono a loro insaputa e all’insaputa degli indiani stessi. Si dicono pronti a ricevere i loro “orfani” a braccia aperte. Nel frattempo decidono di farla finita con iniziative sporadiche e volontaristiche, per istituire un sistema organico che, se non è ancora di rappresentanza, costituisce quanto meno una buona rappresentazione.
Gennaro si rende subito conto che qui nessuno parla Romanì, se non per gusto accademico. È chiaro: che senso ha per un indiano parlare un idoma distintivo nato per affrontare un ambiente ostile, quando vive in casa propria?
Gennaro si aggira a New Delhi in questi giorni un po’ con noi e un po’ da solo. Il nostro viaggio termina qui. La risalita alle origini si è rivelata come una piccola lezione di ontologia. All’origine dell’origine si trova l’indistinto. E la difficile scelta tra il dissolvere la preziosa identità costruita lungo l’arco dei secoli, per confluire in una madre-terra che è stata, fino ad oggi, dimentica e matrigna, oppure il continuare come geonauti a gravitare intorno a un pianeta, senza mai toccarne il suolo.

 


 Romanistan di Luca Vitone è un progetto promosso dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, vincitore della IV edizione del bando Italian Council (2018), concorso ideato dalla Direzione generale arte e architettura contemporanee e periferie urbane (Dgaap) del Ministero per i beni e le attività culturali, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo. In collaborazione con «Il manifesto», sul nostro sito, uscirà ogni settimana un breve diario di viaggio che segnerà le tappe del percorso dell’artista con il suo gruppo. Le tappe saranno narrate su www.ilmanifesto.it ogni venerdì a partire dal 31 maggio, per finire il racconto di parole e immagini il 5 luglio ( sei puntate). Sul sito di Luca Vitone sarà possibile vedere le coordinate geografiche in cui si troverà ogni tot minuti.